Alessandro Lanni

In effetti, a mettere in fila i risultati degli ultimi referendum tenuti in giro per il mondo, i proponenti hanno preso scoppole mica male dimostrando che si può pure avere un bel gruzzolo di capitale politico da spendere ma non sempre l'”all in” paga. Capi di stato e di governo che hanno creduto di rafforzare una leadership in difficoltà (o anche no, come nel caso di Vilktor Orban in Ungheria) attraverso il voto/plebiscito popolare e che in fin dei conti escono dalle urne con le ossa rotte o quantomeno con ambizioni ridimensionate.

La lezione più chiara dall’esperienza per i leader che sperano di vincere i referendum è evitare di personalizzare il voto.

L’errore, e il filo rosso che tiene insieme tre casi eclatanti di fallimento, nota Ian Bremmer su Time è la scommessa su se stessi che i tre leader hanno compiuto. Di fronte all’aut aut, il mitico (almeno da noi) “popolo dei referendum” ha preso l’aut che il palazzo non si aspettava.

  1. David Cameron il 23 giugno ha chiesto di votare no alla Brexit. Ha vinto il sì all’uscita dall’Ue. Ha vinto la demagogia e le bufale dell’Ukip sull’invasione della Gran Bretagna. E il premier sconfitto è stato sostituito da Theresa May.
  2. Viktor Orban il 2 ottobre avrebbe voluto dare uno schiaffo all’Ue sulle quote per i rifugiati e mettersi alla testa del fronte anti-europeista (con Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca). Dal voto è uscita una stragrande maggioranza di consensi per il populista ungherese e per la linea autarchica sui migranti però senza quorum (i no all’Europa si sono fermati al 43%).
  3. Terzo schiaffo per un leader. Juan Manuel Santos, presidente della Colombia, ha chiesto il visto popolare per il suo accordo di pace con le Farc. Be’, le cose non sono andate come sperava e ora si trova indebolito e con un nuova trattativa da far ripartire. Si consola però col Nobel per la pace, appena assegnatogli dal Comitato di Oslo.

Matteo, ti fischiano le orecchie? (AL)